1. Di cosa ti occupi?
Lavoro nella Divisione Ricerca Internazionale dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, l’ufficio amministrativo che supporta i dipartimenti in tutti quelli che sono gli oneri relativi alla gestione dei progetti di ricerca finanziati, fondamentalmente dalla Commissione Europea, tramite il Programma Quadro, Horizon 2020.
2. Come mai ha deciso di intraprendere una carriera in ambito universitario?
Ho iniziato a lavorare in ambito ICT e quindi ad occuparmi di project management. Poi “sono finito” all’università quando si è trattato di creare la prima scuola di formazione a distanza, la prima struttura pubblica che ha fatto e-learning in Italia, la scuola IAD di Tor Vergata.
All’interno della scuola ho iniziato ad occuparmi anche di finanziamenti sia nazionali che internazionali e poi… sono diventato troppo vecchio e mi hanno detto che non posso più giocare con i computer e mi sono dedicato all’altra attività, quindi mi sono dedicato ai progetti.
3. Qual è secondo te la più grande sfida nel project management al momento?
La sfida è adottare queste metodologie in ambiti non prettamente ingegneristici. Io ho sempre utilizzato i metodi di project management nella gestione dei servizi, con ottimi successi. Il problema è che non sono mai riuscito a spiegare a collaboratori ed utenti l’importanza di queste metodologie, che spesso venivano trascurate (e ovviamente poi le cose o implodevano o venivo di nuovo coinvolto). Non si riesce a far passare il valore aggiunto di un corretto utilizzo di queste metodologie.
L’obiettivo, nel caso di un progetto, è il risultato: puoi avere tutti i certificati che vuoi ma se non usi davvero il metodo, se non lo costruisci, se non lo aggiorni, non lo inizi ad usare da quando inizi a pensare al servizio o al prodotto, allora è inutile.
4. Quali sono quindi le sfide in Italia?
L’Italia ha un problema relativo alla tipologia delle organizzazioni, sia pubbliche che private, fortemente piramidali e non orientate ai progetti. Le organizzazioni che in Italia si sono riorganizzate per progetti sono tutte organizzazioni multinazionali che hanno sede anche in Italia, tolte le eccezioni di aziende italiane leader di settore.
La sfida è cercare di usare il project management nei servizi e in particolare nei servizi pubblici, che potrebbero essere il driver. L’Italia ha la forza per farlo e secondo me si dovrebbe partire dalle scuole.
Anche per una ricerca di gruppo è importante avere una metodologia: non puoi delegare a dei bambini o ragazzi l’organizzazione senza insegnare una metodologia, altrimenti succede che una persona fa il compito e gli altri… vanno in pizzeria. A volte succede anche fra gli adulti, ma secondo me bisogna iniziare dalle scuole.
In Italia non sappiamo lavorare in squadra ed è diventato più evidente negli ultimi anni. Bruxelles è un buon punto di osservazione, fino a tre anni fa c’era una divisione più o meno basata sul bacino linguistico culturale, per cui c’era la partita francese, inglese. Adesso il vallo divide chi sa lavorare in gruppo e chi no, chi sa lavorare in squadra e chi no, chi sa lavorare in un network e chi no.
Comunque a parte tutto la sfida per la PA è adottare queste metodologie ai servizi e l’unico mezzo per arrivarci è la formazione di base.
5. Come ti sei avvicinato al metodo PM² e cosa ti ha convinto ad essere un “sostenitore”? Quali sono le sfide che PM² può aiutare a affrontare?
La semplicità: PM² è facile, auto consistente, contiene tutte le istruzioni e gli strumenti. E, rispetto ad altre metodologie, consente un rapido avvio, anche grazie al fatto che la Commissione ne consente il riuso e la diffusione senza oneri, basta citare la fonte. La possibilità di ridistribuire la guida liberamente consente di coinvolgere tante organizzazioni, pubbliche e private. Nel prossimo piano finanziario pluriennale dell’Unione Europea avremo addirittura le Regioni che potranno essere chiamate a collaborare sulla parte di cooperazione internazionale e sulle politiche di vicinato, se vogliamo cogliere questa sfida dobbiamo formare i nostri funzionari locali a cooperare con colleghi di altre nazioni, a fare progetti usando una lingua e una metodologia comune, è una sfida per il sistema paese, anche considerando la possibilità di integrazione o coordinamento che sarà lanciata fra fondi strutturali e fondi a gestione diretta, integrazione complessa se non si è efficienti a livello di amministrazione locale. I paesi UE a est sono piccoli, hanno la dimensione di una nostra regione quindi non hanno questa criticità, gestiranno l’integrazione dei fondi a livello nazionale, ma noi abbiamo Regioni di grandi dimensioni come Lombardia, Lazio, Puglia. Per questo è urgente: abbiamo un anno di tempo. Quando partirà il prossimo piano finanziario pluriennale noi queste competenze le dovremo avere.
Il prossimo piano pluriennale prevederà inoltre un audit intermedio: se non riusciamo ad impegnare correttamente i fondi saranno – giustamente – riassegnati a chi li usa. In Italia il rischio di non riuscire a fare gioco di squadra è purtroppo alto.
Una metodologia aperta e liberamente accessibile come PM² serve. E serve all’Italia, al nostro sistema paese.